di Patrick McCarthy
traduzione di Marco Forti
Nei primi anni di studio delle arti marziali, l’idea di fare domande su quel che mi veniva insegnato, semplicemente non mi è mai passata per la mente. Davo per scontato che quello che stavo imparando fosse trasmesso correttamente. Se qualcosa non funzionava supponevo che fosse perché non mi stavo allenando in modo sufficientemente duro oppure che la mia esecuzione non fosse corretta.
Non so se questo atteggiamento fosse correlato al comportamento socio-culturale che stavo inconsciamente assorbendo. Ad ogni modo questo mi impedì non solo di mettere in discussione l’autorità dei miei insegnanti ma anche di acquisire la consapevolezza dell’importanza di fare domande!
Mentre gli anni sessanta volgevano al termine la mia ossessione per le arti del combattimento cresceva in proporzione all’aumentare della loro popolarità, proprio nel periodo in cui il fenomeno Bruce Lee esplodeva come una bomba atomica! Tra le affermazioni più interessanti di Bruce Lee c’erano il concentrarsi sulla funzionalità e la critica alle pratiche di combattimento eccessivamente ritualizzate e incongrue.
L’ormai famosa frase “liberatevi dal caos classico”, più di ogni altro suo commento provocatorio, ha contribuito a spingere un’intera generazione di persone a “pensare fuori dagli schemi”. Da giovane ribelle, cresciuto in un ambiente contrario al sistema, ammiravo Lee per molte ragioni, soprattutto perché aveva dato un senso all’idea di rompere le regole! Il movimento che aveva contribuito a far sorgere promuoveva l’individualità e l’espressione della propria personalità. Questo aiutò ad allentare l’enfasi posta sulla conformità e sullo stile immutabile inteso come sistema inflessibile di credenze, uno stile unico valido per tutti.
Ancor più interessante, Lee sposò il concetto di “Via senza Via” e pose la natura brutale e imprevedibile come premessa contestuale ideale alla pratica delle arti marziali. A supporto della sua teoria e della sua comprensione della tradizione, Lee pose eguale enfasi sull’allenamento fisico, sulla coltivazione della mente e sul nutrimento dello spirito.
Nei molti anni in cui ho continuato a studiare e ad allenarmi ho scoperto che la nostra tradizione okinawense (fortemente influenzata dalla cultura giapponese) era dominata da un atteggiamento mentale prevalentemente inflessibile, incline a santificare il maestro, a non mettere in discussione le informazioni esistenti (peraltro quasi sempre prive di riscontri) e all’assumere come regola l’idea che nessuno potesse essere migliore o avere maggior conoscenza del maestro giapponese/okinawense di turno!
Non appena i confini del mio viaggio iniziarono ad espandersi fuori dal Canada (Stati Uniti, Sud America, Giappone, Corea, Cina, Sud Est Asiatico, Europa, Africa, Oceania, ecc…) alla ricerca di maggior conoscenza scoprii che questo atteggiamento mentale non solo era totalmente sbagliato ma costituiva anche la ragione principale per cui erano sorti così tanti problemi.
Naturalmente mi rendo conto che ci sono stati e ci sono tuttora fattori culturali e commerciali legati al desiderio di proteggere l’integrità dei maestri asiatici (giapponesi, okinawensi, cinesi, coreani, ecc…) e il loro controllo su questo settore.
Obbligo morale fuorviante
Fu leggendo il libro “Unsettled Matters: The Life & Death of Bruce Lee” (letteralmente “Questioni irrisolte: la vita e la morte di Bruce Lee”) di Tom Bleecker (secondo marito di Linda Lee, N.d.T.) che scoprii finalmente come esprimere meglio il mio sentire in merito a questo argomento. Bleecker scrive: «quando feci le mie prime scoperte, devo ammettere che provai quel che poi riconobbi come un obbligo morale fuorviante nel proteggere la “leggenda di Bruce Lee”. Mi è valso uno sforzo immane cercare di giustificare il fatto che l’uomo che avevo sempre visto come un’icona delle arti marziali fosse, in realtà, un essere umano carico di fragilità e demoni incontrollabili.» [Tom Bleecker, Unsettled Matters, pag. 243]
Il commento di Bleecker esprime perfettamente il sentimento che mi ha tormentato per molti anni. Non ho mai voluto esprimere pubblicamente ciò che realmente pensavo di molti dei “maestri” che il mio percorso mi aveva consentito di incontrare, questo per la paura di essere accusato di mancanza di rispetto nei confronti della tradizione e di essere per questo screditato. Attraversai una linea molto sottile senza fare i nomi di chi consideravo rispettivamente competente o incompetente. La mia esperienza mi dice che quando questo tipo di considerazioni vengono scritte è sempre il messaggero a farne le spese, mentre il messaggio non viene nemmeno preso in considerazione. Ovviamente quelli che in questi casi si dimostrano detrattori più accaniti sono sempre quelli che avrebbero più da perdere nel caso in cui le critiche venissero pubblicamente provate. Indipendentemente dall’etnia culturale a cui apparteniamo, siamo tutti esseri umani pieni di imperfezioni. Per questo è decisamente ipocrita considerare che qualcuno di noi (maestri inclusi) o le nostre creazioni siano al riparo da ogni forma di critica.