Karate-do Kurofune

Karate-do Kurofune

OTTAVA PARTE
Ora vorrei fornire gli ideogrammi di origine cinese usati dal periodo di Itosu Anko per descrivere le due fonti del Karate-doShorin e Shorei.

少林寺
1. Shaolinsi (Shorinji):
“Tempio della giovane [o piccola] foresta”. L’ideogramma cinese [kanji] usato per il tempio di Shaolin.

少林寺流
2. Shaolinsiliu (Shorinjiryu):
Stile di autodifesa (quanfa = kenpo) del tempio di Shaolin. “Liu” significa letteralmente “flusso” o “corrente”. Kyan Chotoku utilizzò questo termine e lo stesso fecero Shimabukuro Zenryo e Nakazato Joen.

少林流
3. Shaolinliu (Shorinryu o Shobayashiryu):
Si tratta di due pronunce diverse riferite agli stessi kanji. La pronuncia Shobayashiryu si deve a Shimabukuro Eizo che la utilizzò per definire la sua linea di “Shorinryu“.

小林流
4. Shaolinliu (Shorinryu o Kobayashiryu):
La terza pronuncia – Kobayashi – si deve a  Chibana Choshin ed è stata in seguito utilizzata da molti autorevoli maestri di Okinawa: Miyahira Katsuya, Nakazato Shugoro, ecc. Tuttavia, come si nota, il primo carattere è stato recentemente modificato per differenziarlo dalle scuole Shobayashi e Kobayshi .

昭林寺流
5. Zhaolinsiliu (Shorinjiryu):
“Scuola del tempio della foresta luminosa”, utilizzato da Mabuni Kenwa.

昭林流
6. Zhaolinliu (Shorinryu):
“Scuola della foresta luminosa”, utilizzato da Mabuni Kenwa.

昭霊寺流
7. Zhaolingsiliu (Shoreijiryu):
“Scuola del tempio dello spirito luminoso”, utilizzato da Itosu Anko, Mabuni Kenwa e Funakoshi Gichin.

昭霊流
8. Zhaolingliu (Shoreiryu):
“Scuola dello spirito luminoso”, utilizzato da Itosu Anko, Mabuni Kenwa e Funakoshi Gichin.

邵林寺流
9. Shaolinsiryu (Shorinjiryu):
Utilizzato da Miyagi Chojun.

邵林流
10. Shaolinliu (Shorinryu):
Utilizzato da Miyagi Chojun.

邵霊寺流
11. Shaolingsiliu (Shoreijiryu):
Utilizzato da Miyagi Chojun e Mabuni Kenwa.

邵霊流
12. Shaolingliu (Shoreiryu):
Utilizzato da Miyagi Chojun e Mabuni Kenwa.

沙蓮寺流
13. Shaliansiliu (Shorenjiryu):
“Scuola del tempio del loto”. Nome dello stile e del tempio Buddista della provincia del Fujian dove studiò Fang Shiyu, praticante del pugno del monaco e padre di Fang Jiniang (fondatore dello stile della gru bianca).

CW: Patrick, c’è altro che puoi raccontarci a riguardo dei kata che ancora non sappiamo?
PM: Ho imparato ad utilizzare i kata in un modo al quale attribuisco un immenso valore. Vivendo in Giappone da molti anni [McCarthy sensei arrivò in Giappone nel 1985] ho scoperto che i kata possono essere usati come strumento di introspezione, una sorta di Zen in movimento. Suzuki Daisetsu, eminente prelato Zen, nella sua introduzione al libro di Eugen Herrrigel «Lo Zen e l’arte del tiro con l’arco», ha scritto che il budo giapponese non viene praticato per i suoi valori utilitaristici.
Mi spiego meglio: i kata sono esercizi formali del karate-do ortodosso. Formulati in schemi geometrici, consistono in movimenti difensivi che rappresentano applicazioni predeterminate per un ampio spettro di scenari comuni di attacco. I kata – seguendo uno schema che inizia e termina sullo stesso punto (enbusen) con un’espressione di cortesia (rei) – sono gli strumenti attraverso i quali gli antichi maestri hanno trasmesso i loro segreti fino ad oggi. È grazie ai kata ortodossi che la tradizione filosofica del karate-do esiste e prospera ancora. Ho dedicato molto tempo e molti sforzi alla ricerca e allo studio di diversi kata considerati “persi”, vale a dire Happoren, Nepai, Hakutsuru, Wanduan, Aragaki Sochin, Niseishi ed Unshu e sono felice di aver finalmente ripristinato una parte importante della storia del karate-do. Sotto questa luce ho aiutato a ricostruire parte di una tradizione perduta (ryukyu kenpo karate-jutsu) e spero di divulgarla in modo ortodosso, enfatizzandone sia i valori utilitaristici che quelli non utilitaristici.
Si dice che non ci sono limiti all’allenamento nei kata. La nostra attenzione – consumata nei e dai kata – è portata così profondamente al nostro interno che gli strati impermeabili del silenzio giungono ad isolarci dalle distrazioni interiori ed esteriori.  La confusione si dissolve gradualmente fino a scomparire del tutto. Regolando il flusso del respiro dall’interno e sincronizzandolo con l’esecuzione di ogni espansione e contrazione muscolare, il kata diventa un veicolo potente di introspezione attraverso cui i pensieri si armonizzano con il movimento. Le distrazioni interiori ed esteriori si dissolvono in un ruggito smorzato fino a che non disturbano più di quanto possa farlo il suono distante di un tuono in lontananza.
In quest’ottica il kata è spesso descritto come Zen in movimento.
Andando oltre l’esaurimento delle forze e nonostante i muscoli doloranti, abbiamo tutti provato la sensazione di pace che fluisce calma nella pratica brutale del karate-do. È attraverso questa tranquillità che si realizza la ricerca della realizzazione. Inoltre, se considerassimo la miriade di fenomeni correlati ai quali fa riferimento un singolo kata, capiremmo che il kata è, esso stesso, un’intera tradizione. Potremmo anche arrivare a comprendere perché tanti pionieri del karate-do sostenessero l’importanza di padroneggiare un solo kata piuttosto dell’inutile per quanto popolare accumulo di numerosi kata.
Fino all’inizio del secolo scorso, la maggior parte delle scuole di Okinawa, se non tutte, erano basate su un solo kata. Fu durante l’era di Itosu che questa tradizione prese una nuova direzione dovuta, in larga parte, alla crescente popolarità del karate-jutsu nel sistema scolastico.
Più tardi, quando il karate-jutsu venne introdotto nella madrepatria giapponese, l’istruzione di massa e l’introduzione delle competizioni rivoluzionarono completamente la sua pratica.

Mancanza di unità

CW: Patrick, perché non ci sono standard universali a governare il karate-do?
PM: Intendi come quelle esistenti nel judo e nel kendo?

CW: Esatto.
PM: É una domanda a cui è facile dare una risposta e ti assicuro che la cosa non dipende certo dalla mancanza di tentativi. Tuttavia possiamo comprendere meglio la questione analizzando per prima cosa come vennero stabiliti gli standard nel kendo e nel judo. Bisogna anche sapere che quel che era stato originariamente previsto per il karate-do durante l’introduzione nella madrepatria giapponese non si è verificato anche a causa della sconfitta militare del Giappone, avvenuta proprio in un periodo cardine nella storia di questa tradizione. Sebbene un’analisi approfondita potrebbe mettere meglio in luce le circostanze che diedero origine allo sviluppo del kendo e del judo, mi limiterò alla seguente spiegazione riassuntiva.
Con l’abolizione del Tokugawa Bakufu (il governo militare che guidò il Giappone dal 1603 al 1868), la restaurazione Meiji trasportò il Giappone dal feudalesimo alla “democrazia”. Di conseguenza la struttura a classi, il portare le spade come i guerrieri samurai, lo stipendio annuale ed il chonmage (testa rasata davanti con i capelli lunghi raccolti dietro nel caratteristico ciuffo, N.d.T.), svanirono negli annali della storia insieme a tutti gli altri fenomeni sociali caratteristici delle forze autoritarie del feudalesimo.
Tuttavia, a causa dell’incapacità di sfuggire bruscamente al maschilismo in base al quale il Giappone si era evoluto e al timore di perdere l’omogenea identità culturale sulla scia dell’influenza straniera, molti dei principi moderni finirono per riflettere quelli basati sul feudalesimo. Il bugei (insieme delle arti marziali) perpetuando antiche tradizioni ed incoraggiando lo sviluppo di molti dei nuovi passatempi sociali e culturali, diventò una forza fondamentale nel plasmare la storia giapponese moderna.

Sulla base di antiche usanze, ideologie inflessibili e profonde convinzioni religiose, il budo moderno (vie marziali), fenomeno caratteristico del Giappone, diventò più di un semplice svago culturale. Nella sua nuova impostazione socio-culturale, il budo, per molti versi, finì per diventare un ulteriore canale attraverso cui incanalare kokutai (politica nazionale), introdurre i precetti di shushin (diligenza, conformismo), e di perpetuare il nihonjinron (termine con il quale si riassumono le caratteristiche della cultura e della mentalità giapponese, N.d.T.).
Le principali tecniche del kenjutsu classico (scherma giapponese) vennero raccolte per dare origine al kendo, come gli elementi fondamentali dei vari ryuha (stili/correnti) di jujutsu finirono per costituire le basi del judo.
Il fenomeno moderno del budo, basato su un connubio tra sport e attività ricreativa, favorì la formazione di un profondo rispetto per le virtù, i valori ed i principi venerati dal bushido feudale (la via del guerriero) che promuoveva, tra le altre cose, la volontà di combattere fino alla morte ed anche uccidere se stessi, se necessario.
Gli ibridi innovativi rappresentati da kendo e judo, basati sui principi fondamentali del kenjutsu e del jujutsu, incoraggiavano lo shugyo (austerità) e si guadagnarono ampia popolarità in un periodo di forte escalation militare.
Il budo moderno, supportato dal Ministero dell’Istruzione, prosperò nel sistema scolastico giapponese. La propaganda imperialista popolare promossa dal Butokukai, rafforzata da un’aggressiva campagna militarista, promuoveva il budo come il mezzo attraverso il quale “uomini comuni acquisivano un coraggio straordinario”.
Possiamo affermare che kendo e judo, negli anni intercorsi tra il periodo post-Edo e la vigilia della Seconda Guerra Mondiale (1868-1937), ben servirono a produrre corpi forti e spiriti indomiti per supportare la macchina bellica giapponese in un periodo di fortissima escalation militare.

Ryukyu Kenpo Karate-jutsu
Con la trasformazione di Okinawa in prefettura giapponese ufficiale, i militari promossero una vigorosa campagna di reclutamento nel piccolo arcipelago. Nel 1981, in occasione della visita medica di arruolamento nell’esercito, Hanashiro Chomo (1869-1945) e Yabu Kentsu (1866-1937) furono due dei primi giovani esperti notati per la loro condizione fisica esemplare dovuta alla pratica del ryukyu kenpo karate-jutsu.
La semplice possibilità che questo poco noto fenomeno plebeo di combattimento originario di Okinawa potesse migliorare ulteriormente l’efficacia militare giapponese, ne giustificò un esame più approfondito, esattamente come accadde con il kendo e il judo. Tuttavia, l’analisi venne presto abbandonata a causa delle pratiche formative ritenute troppo pericolose, non organizzate e dei tempi troppo lunghi per acquisire sufficiente competenza. Questo accadde poco prima della costituzione di un movimento finalizzato a modernizzarne la pratica.
Intorno all’inizio del ventesimo secolo, un piccolo gruppo di appassionati di karate di Okinawa guidato da Itosu Anko, istituì una campagna per introdurre la disciplina, come forma di esercizio fisico, nel sistema scolastico dell’isola. Collegando il passato al presente, la crociata di Itosu per modernizzare il karate-jutsu si concretizzò fondamentalmente nella totale revisione della sua pratica.
L’attenzione venne spostata dall’autodifesa alla promozione della forma fisica, attraverso la rimozione di quello che veniva considerato troppo pericoloso per i bambini in età scolare e promuovendo il valore dei kata (forme) ma trascurandone totalmente i relativi bunkai (applicazioni). In questo modo le finalità reali dei kata vennero oscurate e le funzioni di autodifesa non vennero più trasmesse, sviluppando di fatto una nuova tradizione.
Questo periodo di transizione radicale portò al progressivo depauperamento dell’arte di autodifesa e alla sua trasformazione in attività ricreativa che poco dopo, introdotta nella madrepatria giapponese, sarebbe stata ampiamente apprezzata.

Karate-do come microcosmo della cultura giapponese
Konishi Yasuhiro (1893-1983), esperto di jujutsu e importante maestro di kendo, aveva studiato ryukyu kenpo karate-jutsu prima della sua introduzione nella madrepatria giapponese. In seguito studiò sotto la guida diretta di Funakoshi Gichin, Motobu Choki, Mabuni Kenwa e Miyagi Chojun. Konishi descrive il karate-jutsu come una disciplina incompleta se comparata a judo e kendo. Egli, insieme a Otsuka Hironori (1892-1982), il fondatore del wadoryu jujutsu kenpo karate-do), fu in gran parte responsabile dell’avvio del movimento di modernizzazione che ha rivoluzionato il ryukyu kenpo karate-jutsu in Giappone.
Konishi affermò con franchezza (in diverse pubblicazioni quali “Colloqui informali con Yasuhiro“, “Ricordi di Karate“, “Karate e la sua vita” e corroborate da colloqui personali con il figlio di Konishi, Takehiro, nel 1992 e 1993) che il karate moderno era stato forgiato a immagine esatta del kendo e del judo. L’ethos combattivo degli antichi guerrieri samurai, fondamentalmente incarnato dalle varie scuole di kenjutsu e jujutsu, fornì l’infrastruttura sulla quale si sviluppò il moderno fenomeno del budo.
Un vecchio kotowaza (proverbio) giapponese descrive magistralmente come le cose o le persone considerate “diverse” (cioè, non in equilibrio con il “wa” o principio dell’armonia) debbano in ultima analisi conformarsi o venire metodicamente ostacolate dalle onnipotenti forze culturali del Giappone: deru kugi wa utareru (letteralmente: il chiodo che sporge va immediatamente ribattuto).
A differenza di kendo e judo, il karate-jutsu non aveva una sua uniforme né un format competitivo. Il suo curriculum di insegnamento variava a seconda dell’insegnante e non vi era alcuna regola condivisa per valutare con precisione i diversi gradi di competenza.
Rispetto al kendo e al judo, l’umile disciplina del ryukyu kenpo karate-jutsu rimaneva, per gli standard giapponesi, incolta e senza idonea organizzazione o “unicità”. In breve, non era giapponese.
Il ryukyu kenpo karate-jutsu venne criticato dall’opposizione xenofoba, in quel periodo precoce e incerto di transizione della sua introduzione da Okinawa al Giappone negli anni venti e trenta del secolo scorso.
Il periodo di transizione non fu breve né privo di rivalità. In esso è identificabile una fase di giustificazione, un periodo in cui il vento della discordia trasportava i semi della riorganizzazione, un tempo in cui i costumi “stranieri” (gli uchinanchu, abitanti di Okinawa, erano apertamente discriminati e il sentimento anti-cinese era dilagante) venivano metodicamente rimossi e sostituiti da convinzioni omogenee.

Il Dai Nippon Butokukai
L’ultra-tradizionale bugei (arti marziali classiche) del butokukai, che rappresentava secoli di illustre eredità cultirale, ed i gruppi del budo (arti marziali moderne) erano profondamente preoccupati dalle ostilità tra i leader rivali del karate-jutsu. Questi contrasti uniti ai curricula di insegnamento disorganizzati, alla mancanza di decoro sociale e all’assenza di uniformi di pratica spinsero il butokukai (organo governativo nazionale per le tradizioni del combattimento) a considerare la situazione come dannosa per la diffusione del karate-jutsu in madrepatria e a trovare il modo per risolverla.

I criteri
La principale preoccupazione non consisteva solo nella garanzia che gli insegnanti di karate fossero pienamente qualificati per l’insegnamento, ma anche che essi capissero realmente quello che insegnavano. Il Butokukai chiese – perché il karate-jutsu potesse essere accettato in Giappone – lo sviluppo e l’attuazione di un curriculum didattico unitario, l’adozione di un’uniforme di allenamento comune, la definizione di regole condivise per l’accurata valutazione dei vari gradi di competenza, l’adozione del sistema dan/kyu  introdotto originariamente nel judo da Kano Jigoro, e lo sviluppo di un format competitivo sicuro attraverso il quale i partecipanti potessero testare le proprie abilità ed il proprio spirito combattivo. Proprio come dodici pollici equivalgono sempre ad un piede, il piano era quello di stabilire una serie di norme universali, analogamente a quanto fatto in precedenza con il judo ed il kendo.
Non furono meno esigenti le potenti forze del nazionalismo combinate con il sentimento anti-cinese. Insieme, spinsero il movimento del karate-jutsu a riconsiderare l’adozione di un ideogramma più appropriato per rappresentare la loro disciplina, in sostituzione di quello che faceva riferimento alla Cina. In questo periodo di transizione il movimento del kenpo karate-jutsu abbandonò anche il suffisso jutsu per sostituirlo con il moderno do, come nel judo e nel kendo.

L’ideogramma kara in Karate-do
Gli ideogrammi originari della tradizione del combattimento civile della tradizione uchinan (di Okinawa) significavano “mano di Tang”. Il primo ideogramma può essere pronunciato tou o kara e originariamente identificava la dinastia cinese Tang (618-907) per poi essere genericamente utilizzato per identificare la Cina. Il secondo ideogramma, il cui significato è mano, può essere pronunciato te o di. Kinjo Hiroshi affermava che fino al periodo della Seconda Guerra Mondiale, i maestri uchinan di karate si riferivano all’arte con il termine toudi.
Il maestro di Kinjo, Hanashiro Chomo (allievo diretto di Itosu Anko) utilizzò per la prima volta un ideogramma diverso per rimpiazzare quello che significava Cina nella sua pubblicazione del 1905 “Karate Kumite”. Questo ideogramma identificava un’arte di autodifesa in cui, con le mani vuote, si soggiogava un avversario. Il nuovo prefisso kara con il significato di “vuoto” può essere pronunciato anche ku (vuoto) o sora (cielo). Così kara non rappresenta solo l’aspetto fisico ma anche quello metafisico, il piano più profondo delle dottrina buddista Mahayana che sottolinea il distacco, l’emancipazione spirituale ed il mondo interiore ulteriormente enfatizzato anche dal nuovo suffisso do.
L’ideogramma jutsu in karate-jutsu significa arte o scienza. Il suffisso do come usato anche in kendo, judo e budo significa via, percorso, strada o provincia. Lo stesso carattere è pronunciato dao in cinese mandarino ed è quello utilizzato per la filosofia taoista di Lao Zi, autore del dao de jing. Nel contesto filosofico adottato dalle tradizioni di autodifesa, il do rappresenta la via della vita, un percorso da seguire per il miglioramento del sé.
Così i nuovi ideogrammi proclamavano la trasformazione della disciplina plebea okinawense del karate-jutusu che, trascendendo i limiti della brutalità comune, diventava una moderna forma di budo dopo aver abbracciato quel che era tipicamente giapponese. Come altre discipline culturali giapponesi, il karate-do divenne un altro veicolo attraverso il quale canalizzare la cultura giapponese. Così il termine innovativo karate-do (via della mano vuota) sostituì i termini toudijutsu (arte della mano cinese) e karate-jutsu.
Mentre il nuovo termine karate-do, scritto con i due nuovi ideogrammi kara e do non sarebbe stato riconosciuto ufficialmente ad Okinawa fino all’ottobre del 1936 (a seguito della famosa riunione dei maestri di Okinawa tenuta allo Showa Kaikan di Naha), il Dai Nippon Butokukai ne ratificò l’adozione nel dicembre del 1933 riconoscendo ufficialmente il karate-do come forma del budo moderno giapponese.
Oggi molti storici ritengono che il ryukyu kenpo karate-jutsu introdotto inizialmente nella madrepatria giapponese fosse al meglio un metodo efficace ma disorganizzato di autodifesa.
Il Butokukai concluse che i miglioramenti che aveva richiesto avrebbero consentito la creazione di un’unica coalizione sotto il suo patrocinio, esattamente come accaduto al judo ed al kendo. Tuttavia lo sviluppo del karate-do passò in secondo piano a causa delle avversità diffuse dall’avvento della Seconda Guerra Mondiale in misura tale da far fallire l’adozione degli standard.
Molti credono che quando le Forze Alleate misero in ginocchio il Giappone nel 1945 lo sviluppo del karate-do, come disciplina unificata, venne abbandonato. Questo fu in larga parte dovuto allo scioglimento di organizzazioni come il Butokukai, considerate radici del militarismo. Tuttavia, come accaduto al judo e al kendo, il karate-do finì in seguito per godere di un’inaspettata popolarità grazie al formato competitivo, nato nel sistema scolastico e sviluppato principalmente grazie agli sforzi della Japan Karate Association.
Nonostante la popolarità del karate-do, le differenze di opinioni, le animosità personali e la fiera rivalità illustra chiaramente come il karate-do sia destinato a mantenere la sua individualità. Infatti, per quanto si siano sviluppate una miriade di interpretazioni eclettiche che condividevano similitudini, gli stili del karate-do non si unificarono mai come invece era accaduto ai judo ed al kendo. Fenomeno questo che, nel bene e nel male, permane ad oggi.

CW:  Patrick, puoi dirci di più sul Butokukai, dato che è stato scritto davvero poco a riguardo?
PM: In realtà ho scritto un articolo piuttosto corposo sul Butokukai, destinato alla pubblicazione su FAI (Fighting Arts International) molti anni or sono.

La storia del Butokukai
Senza la consapevolezza della misura in cui il protocollo inflessibile influenza i Giapponesi, è difficile comprendere appieno la loro cultura e la venerazione che riservano all’Imperatore. Quale prima organizzazione direttamente dedicata alle arti marziali, il governo (in pratica l’Imperatore) autorizzò il Dai Nippon Butokukai (letteralmente: Associazione delle Virtù marziali del grande Giappone) al controllo, alla regolamentazione e alla standardizzazione dei bugei (arti marziali giapponesi) nonché alla determinazione di chi fosse qualificato all’insegnamento.
Il Butokukai venne fondato nell’antica capitale di Kyoto nel 1895, poco dopo la transizione del Giappone dal feudalesimo alla democrazia. Costruito sul concetto di promuovere forza, spirito indomito e carattere virtuoso, ispirandosi alle qualità coltivate dal cinquantesimo Imperatore giapponese Kanmu (781-805), il Butokukai  perpetuava l’austerità ed i principi morali sui quali si erano formati i bugei e riveriva lo spirito di Kanmu quale patrono. Il Butokukai, sottolineando la grandezza del wa, divenne l’esempio che tutti avrebbero dovuto seguire.
Il 5 settembre 1896 l’Imperatore Meiji selezionò Komatsumiya Akihito, membro della famiglia imperiale, quale primo sosai (direttore generale) del Butokukai. In ottobre dell’anno successivo, l’associazione organizzò il primo Butokusai (festival delle arti marziali) sotto un tendone di fortuna che fece da cornice alle esibizioni di kendo e judo. In tutto il corso dell’anno successivo il sosai ed i suoi sostenitori fecero forti pressioni per ottenere sufficiente sostegno finanziario sia dal governo che dall’Imperatore per costruire un edificio che potesse ospitare il numero crescente dei suoi associati, il Butokuden.
Nel 1899 venne completata la costruzione del Butokuden (sede ufficiale del Butokukai per gli allenamenti) adiacente allo storico tempio Heian, nelle vicinanze del Palazzo Imperiale di Kyoto. L’organizzazione, che aveva il suo quartier generale nel nuovo edificio, iniziò ad attrarre i più rispettati artisti marziali di tutto il Giappone.
Nel 1906 Fushinomiya, un altro membro della casata imperiale, divenne il secondo sosai del Butokukai ed annunciò l’intenzione di fondare un collegio militare. Con il sostegno dello stesso Imperatore Meiji, il Butokukai diede il via al suo nuovo progetto. Nel giugno del quarantesimo anno Meiji (1907), il Dai Nippon Butokukai divenne una fondazione.
Grazie al fatto che il budo giocava un ruolo importante nella costruzione del corpo, della mente e del carattere dei giapponesi moderni, nel 1911 e in accordo con il Ministero dell’Educazione, il Butokukai riuscì a rendere obbligatori i corsi di kendo e judo nelle scuole medie di tutta la nazione. Questo evento evidenzia il valore allora riconosciuto dal governo all’allenamento nel budo.
Il budo, promuovendo gli elementi essenziali alla macchina bellica giapponese e sotto gli auspici del Butokukai, incoraggiava shushin, kokutai e nihonjinron. L’edificio per il nuovo collegio militare, costruito vicino al Butokuden, venne aperto il 18 settembre 1911. Inizialmente venne chiamato Bujutsu Senmon Gakko (scuola di specializzazione nelle arti marziali) per poi cambiare nome in Budo Senmon Gakko (scuola di specializzazione nelle vie marziali) o, più brevemente, Busen.
Uno dei migliori allievi di Kano Jigoro, il distinto Isogai Hajime, fu direttore del Dipartimento di judo del Butokukai mentre Naito Takaharu, eminente praticante della via della spada nella scuola Hokushin Ittoryu, diresse il Dipartimento di kendo. Il Busen venne più volte definito l’Accademia West Point del Giappone. Durante l’era radicale di inasprimento del militarismo in Giappone, fu il Butokukai a rendere popolare l’espressione: «grazie al budo uomini comuni acquisiscono un coraggio straordinario».
La Mecca delle tradizioni del combattimento, il Butokuden, fu il luogo dove i budo juhappan (le 18 vie marziali) giapponesi vennero vigorosamente coltivate e profondamente riverite. Con programmi biennali e quadriennali e un team di brillanti istruttori, il Busen disciplinava i giovani con il kendo ed il judo, mentre contemporaneamente trasmetteva loro la conoscenza di strategia militare, storia, filosofia e studi accademici associati per forgiare la nuova mentalità militare del Giappone, il moderno guerriero samurai.
I diplomati di questa élite venivano riveriti come i più talentuosi ed educati esperti giapponesi dei loro tempi.

wpChatIcon
wpChatIcon